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DOMANDA
RISPOSTA DI DONATELLA CERE’
6.05.09. Gentile Collega, devo assistere una giovane ragazza rumena in una separazione giudiziale.
Posto che ha i requisiti per accedere al gratuito patrocinio, nell'istanza devono essere indicati comunque i redditi del marito anche se non verranno cumulati?
Cara Collega,
ti rispondo positivamente, si,  deve essere allegata copia della dichiarazione dei redditi dell'ultimo anno del marito, pena l'inammissibilità al patrocinio.
Gentile Collega,
in caso di separazione personale, permane il diritto del coniuge superstite alla reversibilità della pensione del coniuge defunto ?
 
Gentile Collega,
la questione proposta è stata trattata in modo estremamente ricco ed articolato sia dalla giurisprudenza costituzionale negli anni ’80, sia da folta giurisprudenza di legittimità più recente.
Originariamente la Corte Costituzionale, con sentenza 14/1980, aveva escluso il diritto del coniuge superstite alla reversibilità della pensione del coniuge defunto sulla base di alcune considerazioni che, in ragione della rapida evoluzione culturale afferente l’istituto matrimoniale, è stata ormai totalmente abbandonata, al punto tale che con una pronuncia di sette anni dopo (cfr. sent. Cost. 286/1987), il Giudice delle Leggi, nuovamente investito della questione, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 24 L. 153/1969, nella parte in cui disponeva, con riguardo al trattamento di reversibilità, l’impossibilità di far valere un proprio diritto alla pensione, quando fosse passata in giudicato la sentenza di separazione per sua colpa. Aderendo allo stesso principio, è stata espunta dal nostro ordinamento anche l’art. 20, comma 1, lett. a) L. 12/1973 (cfr. sent. Cost. 1009/1988), che prevedeva una disciplina analoga a quella oggetto della sentenza del 1987.
Essendo orientata, quindi, l’intera giurisprudenza costituzionale a riconoscere una valenza “forte” al principio solidaristico ex art. 3 Cost. in relazione al diritto del coniuge superstite separato con addebito alla pensione di reversibilità del coniuge defunto, anche i giudici di legittimità si sono conformati ai dicta sopra indicati, interpretando le regole degli artt. 5 e 9, comma 3 L. 898/1970 in modo tale che i principi generali fossero applicabili anche dal giudice di merito.
La Corte di Cassazione, infatti, afferma che la ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge superstite e l'ex coniuge deve essere compiuta "tenendo conto della durata del rapporto" matrimoniale di ciascun coniuge, pur non ritenendosi tale criterio come unico ed esclusivo parametro al quale conformarsi automaticamente secondo un mero calcolo matematico, poiché sorgono anche alcuni criteri c.d. correttivi, designati dall’art. 5 L. 898/1970.
In altre parole, il giudice di merito dovrà valutare nel caso concreto, oltre alla durata del rapporto matrimoniale, anche altri elementi quali: il carattere solidaristico della pensione di reversibilità in relazione alla particolarità del caso oggetto di giudizio (Cass. 15164/2003), le condizioni economiche di entrambi gli ex coniugi (Cass. 5060/2006), l’assegno goduto dal coniuge divorziato (ex pluribus Cass. 23379/2004), i periodi di convivenza prematrimoniale (Cass. 4876/2006) e il contributo dato da ciascun coniuge, durante i rispettivi matrimoni, alla famiglia.
Dal quadro giurisprudenziale descritto, dunque, sorge un regime particolarmente favorevole al coniuge supersite separato con addebito o per colpa in relazione alla possibilità di godere della pensione di reversibilità del coniuge defunto.
 
Gentile Collega,
gradirei sapere se la querela di falso civile è l'unico strumento per contestare la veridicità di un certificato di matrimonio celebrato a suo tempo in Gran Bretagna e verosimilmente trascritto in Italia. Esiste un certificato che attesta l'avvenuta trascrizione ma presenta molte incongruenze in ordine alle quali è stata interessata anche la Procura della Repubblica di Roma che , però, tarda a concludere le indagini. La mia cliente mi chiede di procedere per la via giudiziaria civile affinchè venga dichiarata la inesistenza dello status coniugalis proprio in ragione di queste palesi incongruenze.
 
Gentile Collega,
la risoluzione della questione deriva dalla summa divisio che il nostro ordinamento pone fra la disciplina del certificato di matrimonio celebrato all’estero, secondo quanto previsto dalla L. 218/1995, e la trascrizione dell’atto stesso, che trova il proprio fondamento di diritto positivo nel DPR 396/2000.
L’art. 65 L. 218/1995, in particolare, prescrive il riconoscimento in Italia dei provvedimenti stranieri, inclusi dunque anche quelli relativi ai rapporti di famiglia, come si evince sia dal dato testuale sia dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, che ha stabilito la permanenza della validità di tale atto anche nel nostro ordinamento fino al momento in cui non sia impugnato dai soggetti legittimati (tra cui il PM) e non sia emessa pronuncia dal giudice di nullità (Cass. 5537/2001; Cass. 1739/1999)
Qualora venga in rilievo, al contrario, l’esistenza di un certificato che attesti la trascrizione dell’atto matrimoniale, si applicano le regole previste agli artt. 10, 11 e 22 DPR 396/2000, i quali impongono che la trascrizione si manifesti mediante verbalizzazione, nonché di traduzione particolarmente qualificata da giuramento prestato dai soggetti indicati all’art. 22 del citato provvedimento.
Ne deriva quindi che in caso di vertenza sul certificato di trascrizione del matrimonio, questo indubbiamente potrà essere attaccato in sede penale per quel che concernono i profili della falsità ideologica e materiale, restando preclusa in sede civile l’esperibilità dell’azione di nullità ex art. 117 c.c., in quanto l’atto in esame esula dall’ambito applicativo della predetta norma.
 
Gentile Avv Cerè,
nell’ipotesi di prelevamento diretto di pensione (art. 8) attivato dall’ex coniuge senza la preventiva messa in mora cui sia seguita la trattenuta del 50% da parte del terzo tenuto, nonostante formale diffida da parte dell’esecutato, l’opposizione si qualifica come una normale opposizione all’esecuzione con competenza del giudice dell’esecuzione ovvero, essendo pendente ricorso ex art. 9 L. 898/1970, si può presentare istanza cautelare al giudice dello stesso ricorso, al fine dell’adozione dei provvedimenti opportuni? (NB: la scrivente ha già presentato ricorso ex art. 700 c.p.c. ante causam ed istanza di anticipazione d’udienza per prevenire l’azione esecutiva nelle more del giudizio ex art. 9, ottenendo un rigetto).
 
Gentile Collega,
la questione di diritto propostami va risolta alla luce dell’interpretazione sistematica e sinottica della disciplina in materia di competenza, degli artt. 8 e 9 L. 898/1970, nonché delle regole previste in materia di esecuzione forzata nell’attuale codice di rito.
Principio generale in materia di competenza è l’art. 9 per cui appartiene al Tribunale non solo una competenza ratione materiae residuale, ma anche una competenza esclusiva in materia di stato e capacità delle persone, nonché di esecuzione forzata.
Gli articoli 8 e 9 L. 898/1970, infatti, concordano simmetricamente con tali principi affermando il Tribunale che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio può imporre all’obbligato di prestare idonea garanzia reale se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi di cui all’art. 5 e 6, attribuendogli così una competenza ratione materiae in relazione ai provvedimenti ulteriori rispetto a quello principale, che consiste nella sentenza produttiva dello scioglimento del rapporto coniugale.
Rispetto a quanto affermato, nulla dice di più il legislatore, a parte la precisazione dell’ultimo comma della stessa norma, la quale prescrive che il “giudice” – ai fini di garantire le ragioni del creditore in ordine all’adempimento degli obblighi di cui agli artt. 5 e 6 – può disporre il sequestro dei beni del coniuge obbligato alla corresponsione dell’assegno. Né può essere dubitabile che la norma si riferisce allo stesso Tribunale che pronuncia lo scioglimento del rapporto coniugale.
Pertanto, nemmeno nel caso del regime delle opposizioni può essere fatto un ragionamento diverso, perchè la vis attractiva della competenza ratione materiae coinvolge anche altri le altre fasi di rito orbitanti attorno all’esecuzione forzata, compreso dunque il regime delle opposizioni ex artt. 615 ss. c.p.c.
 
L’occasione mi sia gradita per inviarLe il mio migliore saluto.
Donatella Ceré
 
 
Gentile Avv Cerè,
qual’è la competenza per far determinare al Tribunale l’onere di corresponsione dei genitori naturali rispetto alla prole (l’assistita vuole un aiuto economico dall’ex convivente more uxorio per il mantenimento della figlia minore).
Non sono sposati e il padre naturale si è sottratto a tale onere.
Domande.
1)                 La competenza è del Tribunale Ordinario o di quello dei Minorenni?
2)                 Per stabilire le modalità di affidamento e/o di visite?
3)                 È possibile chiedere all’ex convivente, padre naturale della minore, anche gli arretrati dal momento in cui è nata la bambina?
 
In relazione ai quesiti oggetto della Sua e-mail, la recente giurisprudenza di legittimità è incorsa in un contrasto ermeneutico che ha avuto ad oggetto la questione se, a seguito dell’entrata in vigore della L. 54/2006, recante Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli, l’organo giudiziario competente a conoscere dei provvedimenti di carattere economico relativi al loro mantenimento fosse il Tribunale ordinario ovvero il Tribunale dei Minori.
La cognizione del giudice fino all’entrata in vigore della citata novella comportava che il regime della competenza ad emanare provvedimenti relativi ai figli naturali in caso di cessazione della convivenza more uxorio dei loro genitori fosse organizzato secondo una regola di riparto che distingueva, a seconda che la controversia riguardasse l’affidamento dei figli stessi o concernesse gli aspetti patrimoniali relativi al loro mantenimento.
Tuttavia, il quadro esegetico e l’orientamento non è mutato con l’ingresso della legge sul c.d. affidamento condiviso, che anzi ha arricchito l’orizzonte normativo colmando alcune lacune originarie della materia.
Il diritto vivente, infatti, ha colto nell’art. 317-bis c.c., concernente l’esercizio della potestà sul figlio minore riconosciuto da entrambi i genitori naturali, il referente normativo per giustificare l’intervento, sia pure eventuale e successivo, del giudizio in materia (Cass. SS.UU. 5847/1993). Questa disposizione, infatti, non si limita a prevedere che la potestà è esercitata congiuntamente da entrambi i genitori, qualora siano conviventi e che, in caso di non convivenza, l’esercizio spetta al genitore con il quale il minore convive o, se il figlio non vive con nessuno di essi, al genitore che per primo lo ha riconosciuto (cfr., sul punto, la ben articolata interpretazione di Cass. 8362/2007)
Si conferiscono, inoltre, al giudice anche ampi poteri di disciplinare in concreto l’esercizio della potestà nel modo che meglio corrisponde all’interesse del figlio. E tra questi poteri si è ritenuto compreso anche quello di disporre l’affidamento in occasione della crisi dell’unione di fatto e di prendere gli altri provvedimenti inerenti all’esercizio della potestà, educazione, istruzione sul rilievo che la soluzione del conflitto tra i genitori e la definizione di linee sulle quali organizzare i loro rapporto dopo la cessazione della convivenza corrisponde ad un evidente interesse del figlio naturale, al pari di quanto accade in occasione della separazione e del divorzio. Dunque, ai fini della definizione delle modalità di affidamento e delle visite (o di uno dei due, alternativamente), la competenza resta pur sempre del Tribunale dei Minori.
Riguardo alla possibilità di chiedere all’ex convivente, padre naturale della minore, anche gli arretrati dal momento in cui è nata la figlia, essa è esclusa dalla concorde giurisprudenza di legittimità.
 
Gentile Collega,
in caso di coppia di fatto convivente da diversi anni con prole minorenne, laddove dovesse verificarsi una rottura del rapporto sentimentale, come vengono disciplinati i rapporti tra i soggetti relativamente all’affido del minore, all’assegnazione della casa familiare, al mantenimento del minore e alla frequentazione con i genitori, nonché all’eventuale mantenimento della madre? E chi sono gli organi competenti a decidere in caso di disaccordo?
 
Gentile Collega,
le questioni di diritto che mi hai posto sono state affrontate dalla recente giurisprudenza di legittimità, che ha accolto con diverse pronunce la possibilità di apprestare una tutela specifica alle situazioni che si concretano nella c.d. famiglia di fatto.
In particolare, molti interpretano tale formazione sociale ex art. 2 Cost., fondata sulla coesistenza di vari elementi, fra i quali la comunità di vita, la stabilità temporale e l’assenza del vincolo coniugale, che qualifica il differente istituto matrimoniale.
Tuttavia, non contrariamente a quest’ultimo, il menage nella famiglia di fatto può nascere e cessare, anche se diversamente rispetto alla famiglia legittima, dove norme e leggi speciali regolamentano la separazione e il divorzio.
Peraltro, i problemi che impone la convivenza di fatto sono molteplici e si sostanziano proprio nei quesiti da Te suggeriti.
In particolare, si possono articolare – per ognuno dei vari profili in esame – differenti risoluzioni.
In merito all’abitazione della casa familiare e alla sua assegnazione, originariamente il convivente non proprietario dell’immobile o non titolare di diritto di godimento sull’abitazione era equiparato ad un ospite e non poteva, quindi, far valere nessun tipo di pretesa. Oggi, al contrario, è riconosciuto un “diritto di possesso” in capo al convivente che fosse stato allontanato dall’abitazione familiare e da far valere mediante le vie legali, salvo la prova contraria dell’ex partner volta a dimostrare il diritto di proprietà
Il partner proprietario potrà agire per far valere i suoi legittimi diritti. La Corte Costituzionale (sentenza n. 166/1998) ha stabilito che, in presenza di figli, la casa familiare, indipendentemente da chi sia il titolare del diritto di proprietà, debba essere assegnata al genitore affidatario. Ciò non costituisce un riconoscimento della famiglia di fatto, perché la decisione è stata presa al solo fine di tutelare gli interessi primari della prole.
Discorso di altro tipo deve essere fatto, invece, se si verte in tema di affidamento del minore, per il quale è opportuno far riferimento in linea generale alla Convenzione sui diritti dell’infanzia di New York del 1989 e, congiuntamente, all’art. 155 c.c., in virtù dei quali la potestà genitoriale va attribuita ad entrambi i genitori, ai fini di garantire una maggiore presenza anche del genitore non affidatario nella vita della minore. Da questo deriva che, in caso di decisioni di maggiori interesse, relative all’istruzione, educazione e alla salute della figlia, saranno assunte dai genitori di comune accordo, mentre le questioni di ordinaria amministrazione rimarranno di competenza del solo genitore non affidatario (cfr. Corte di appello di Napoli Sezione specializzata per i minorenni; decreto 22 marzo 2006; Pres. LEPRE; Rel. DE LUCA, B. c. C.).
 
Gentile Collega,
la mia assistita, con ordinanza giudiziale del Tribunale di Civitavecchia ha ottenuto che il padre del minore versi un assegno mensile di euro 300,00 per contribuzione al mantenimento oltre al 50% delle spese straordinarie.
Fra le spese straordinarie sono ricomprese anche quelle per la baby sitter che accudisce il bambino, mentre la madre lavora?
 
Gentile Collega,
sul quesito postomi non esiste giurisprudenza che approfondisce la materia.
Comunque, alla luce della mia esperienza professionale, non credo che le
spese di baby sitter rientrino fra quelle straordinarie.
Gentile Avv Cerè,
coniugi che hanno contratto matrimonio in Sri Lanka, entrambi residenti in Italia, che vogliano separarsi, dove devono presentare la domanda? In Italia o nel proprio paese?
 
Gentile Collega,
il quesito che mi ha posto si inquadra all’interno della normativa di diritto internazionale privato, che è disciplinata dalla L. 218/1995 e la sua risoluzione va affrontata alla luce delle regole che il legislatore ha predisposto nei casi in cui vi fosse una diversa cittadinanza fra vari soggetti di diritto.
Il canone normativo fin qui accennato, in tal senso, costituisce il punto archimedeo per il fruttuoso scioglimento della quaestio juris, dal momento che la citata legge 218/1995 esordisce all’art. 1 con l’individuazione di un ambito di applicazione ben preciso: infatti, da un lato, essa si occupa di determinare l’ambito della giurisdizione italiana; dall’altro, “pone i criteri di individuazione del diritto applicabile”, dettando infine delle regole in materia di riconoscimento degli atti e delle sentenze stranieri.
Sui primi due aspetti, peraltro, l’art. 1 deve essere interpretato sistematicamente insieme agli artt. 3 e 9: pertanto, la giurisdizione italiana sussiste in linea generale se il convenuto è domiciliato o residente in Italia (a ciò si aggiunga che il successivo art. 4 L. 218/1995 nega implicitamente la possibilità di una deroga convenzionale nelle ipotesi di separazione dei coniugi, perché in tal caso la causa non verte su diritti disponibili). Inoltre il legislatore presta una puntuale disciplina in materia di volontaria giurisdizione, per cui l’individuazione del giudice italiano opererà – oltre che nei casi indicati dall’art. 3 – anche quando il provvedimento richiesto si rapporta ad un criterio di collegamento territoriale (cioè, ad esempio, la cittadinanza italiana o la residenza della persona in Italia) oppure quando il provvedimento stesso riguarda situazioni o rapporti ai quali è applicabili la legge italiana.
La definitiva specificazione di questi principi generali, peraltro, si ritrova chiaramente nell’art. 31 della citata legge, significativamente rubricato Separazione personale e scioglimento del matrimonio, secondo il quale sia la sospensione che la cessazione degli effetti civili del matrimonio sono regolati “dalla legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda di separazione o di scioglimento”. In alternativa, opera la legge dello Stato in cui la vita matrimoniale risulta prevalentemente localizzata (criterio di natura territoriale).
Infine, occorre ricordare anche l’art. 32 che individua la giurisdizione italiana in materia di separazione personale “anche quando uno dei coniugi è cittadino italiano o il matrimonio è stato celebrato in Italia”, non impedendo dunque che la stessa giurisdizione possa operare anche quando il matrimonio non sia stato contratto in territorio italiano (a questo, infatti, allude la forma avverbiale “anche”).
Dall’analisi delle singole norme si possono dunque ricavare sinteticamente quattro regole importanti:
a)                 In generale, la giurisdizione italiana sussiste se il convenuto ha il domicilio o la residenza in Italia (art. 3)
b)                 In materia di volontaria giurisdizione, l’individuazione del giudice italiano si riferirà sia al criterio di collegamento territoriale ai sensi dell’art. 3 L. 218/1995 (domicilio o residenza) oppure quando il provvedimento richiesto si rapporta alla cittadinanza o alla residenza della persona in Italia o, ancora, quando il provvedimento stesso riguarda situazioni o rapporti ai quali è applicabili la legge italiana (art. 9)
c)                  In tema di separazione personale dei coniugi, la fattispecie è regolata in alternativa dalla legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda di separazione o scioglimento ovvero dalla legge dello Stato in cui la vita matrimoniale risulta prevalentemente localizzata (art. 31)
d)                 Non è impedito, inoltre, che la giurisdizione italiana operi anche quando il matrimonio non è stato contratto in territorio italiano (arg. ex art. 32)
Pertanto, è possibile affermare in conclusione che nei confronti dei coniugi che hanno contratto matrimonio all’estero, ma che possiedono la residenza in Italia, la presentazione della domanda di separazione può essere effettuata nel luogo in cui il convenuto risiede, tenendo presente che la fattispecie è regolata alternativamente dalla legge nazionale comune dei coniugi al momento della domanda di separazione ovvero dalla legge dello Stato in cui la vita matrimoniale risulta prevalentemente localizzata, non impedendo l’attuale normativa di diritto internazionale privato la possibilità che la giurisdizione italiana operi anche quando il matrimonio non è stato contratto in territorio italiano.
 
 
Gentile Collega,
devo presentare un ricorso per la modifica delle condizioni di divorzio: il mio cliente vuole la restituzione della sua casa, assegnata in sede di divorzio alla ex moglie affidataria del figlio minore. Il loro figlio ormai è maggiorenne.
Il mio quesito è il seguente: nell’atto introduttivo (ricorso) devo chiedere che il figlio venga sentito? Se no, il giudice può disporre che questi venga sentito? È comunque necessaria la sua audizione? Preciso che il ragazzo attualmente non ha un lavoro fisso (studia all’università), ma è totalmente mantenuto dal padre, anche se vive ancora non la madre nella casa di proprietà del ricorrente. Preciso anche che il ragazzo è favorevole alla restituzione della casa al padre, perché l’intenzione di questi è quella di venderla per poter consentire al figlio di sistemarsi.
Alla luce di questo, ti chiedo se devo convocare dinanzi al Giudice anche il ragazzo o se non è necessario e aspettare che magari lo faccia proprio la madre sul pretesto che il figlio non sia economicamente autosufficiente e che quindi la casa non possa essere restituita al ricorrente.
 
Gentile Collega,
il quesito che mi pone si riferisce alla possibilità per il giudice di disporre l’audizione del minore nell’ambito della disciplina dell’art. 155-quater, che si riferisce all’assegnazione della casa familiare, qualificando tale atto istruttorio come necessario e non già puramente eventuale.
Sul punto, la normativa internazionale ha fortemente vincolato gli Stati affinché fosse effettivo l’ingresso nei singoli sistemi ordinamentali del mezzo d’audizione del minore quale strumento istruttorio necessario, come attestano da un lato l’art. 6 L. 77/2003 di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Strasburgo del 25 Gennaio 1996 sull’esercizio dei diritti del fanciullo e, dall’altro, l’art. 13 della Convenzione de L’Aja nell’ambito del procedimento di sottrazione internazionale di minore.
Soprattutto in relazione a questo composito quadro normativo, la Corte ha affermato che “ai sensi dell’art. 6 L. 77/3003, di ratifica ed esecuzione della Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del fanciullo, il giudice nelle procedure che interessano il minore (nella specie, procedimento di sottrazione internazionale di minore, ai sensi dell’art. 13 Convenzione de L’Aja) deve, quando lo stesso presenti discernimento sufficiente alla stregua del diritto interno, consultarlo personalmente e può escludere tale audizione solo ove essa sia manifestamente in contrasto con gli interessi superiori del fanciullo” (cfr. Cass. civ., sez. I, ord. 16 Aprile 2007, n. 9094).
Il problema che ci si è posto, dunque, concerne la possibilità di estendere il principio della necessità dell’audizione del minore da parte del giudice anche in procedimenti diversi da quelli indicati in via ermeneutica dalla giurisprudenza di legittimità nel recente obiter dictum.
La risposta al quesito, peraltro, non è indifferente: infatti, qualora si ammetta il suo ingresso anche in altri riti, se ne ricava il corollario per cui l’omissione del mezzo istruttorio comporta la nullità del procedimento e della sentenza, divenendo così motivo di impugnazione delle sentenze che non diano ragione, nel proprio apparato motivazionale, dell’omessa audizione.
In realtà, la stessa sentenza citata lascia aperta la possibilità, mediante l’espressione “procedure che interessano il minore”, di poter introdurre il mezzo di audizione del minore anche in altre forme processuali alternative al procedimento di sottrazione internazionale dei minori.
Ciò giustifica, quindi, l’applicazione del principio di diritto anche ai processi che hanno ad oggetto interessi non strettamente patrimoniali quali: a) i giudizi dichiarativi dello stato di adottabilità; b) i giudizi di separazione coniugale ex art. 155 sexies c.c. (con norma applicabile anche ai giudizi sullo scioglimento del matrimonio); c) infine, tutti i giudizi in cui si fa questione dell’affidamento dei figli nella crisi della coppia parentale sia legittima sia naturale, un’audizione obbligatoria per quanto riguarda i minori ultradodicenni rimessa all’apprezzamento del giudicante, se di età inferiore.
È esclusa, come si evince chiaramente dall’elenco, la fattispecie inerente l’assegnazione della casa familiare, disciplinata dall’art. 155-quater. In verità, a voler prestare estremo rigore ai principi internazionalistici, i poteri di audizione del minore che spettano al giudice possono sussistere anche nell’ipotesi di assegnazione della casa familiare.
Questo lo si evince, in particolare, dalla struttura del primo comma dell’art. 155-sexies c.c. che, mentre al primo periodo del primo comma consente al giudice di assumere mezzi di prova, ma entro certi limiti applicativi (prima dell’emanazione dei provvedimenti di cui all’art. 155 c.c.), al contrario nella seconda parte della norma afferma semplicemente che “il giudice dispone l’audizione del figlio minore (…) ove capace di discernimento”. È indubbio, dunque, che – grazie alla sua formulazione – tale il potere di audizione sia estensibile anche al caso dell’art. 155-sexies c.c.
In conclusione, in ordine alla possibilità per il giudice di disporre un’audizione del minore nell’ambito della disciplina dell’assegnazione della casa familiare, certamente si può affermare che la disposizione in esame, prevista all’art. 155-sexies c.c., è estensibile anche alle ipotesi di cui all’art. 155-quater c.c.
 
 

 

  
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